La trappola di Tom Sawyer

Anni fa è circolata nel mondo dell’informatica open source (quella che sviluppa software non proprietario, come Linux) una riflessione su come porsi, da parte di una società informatica, verso i professionisti esterni che possono apportare un notevole contributo all’azienda; la riflessione poneva, in particolare, una domanda: come creare una comunità funzionale allo sviluppo di un software che includa professionisti interni ed esterni? Riflessioni simili sono state avanzate anche da chi ha analizzato esperienze come quelle di Wikipedia (in ambito esclusivamente volontario) o, in un ambito più simile a quello citato in apertura, l’esperienza svolta con la creazione di Google Maps. Queste esperienze permetto di elaborare alcune considerazioni che possono essere utili anche a chi abita le organizzazioni di ogni genere. Un primo aspetto è quello relativo alle comunità come sistema di intelligenza collettiva, come abbiamo scritto tempo fa nel nostro post l’organizzazione come intelligenza collettiva. Concepire l’azienda come un sistema che integra intelligenza umana e quella macchinica (ossia delle macchine di qualunque tipo e dei dati che ne derivano), permette di rispondere ai problemi complessi in modo differente dalle soluzioni adottate abitualmente. Su un altro piano di ragionamento, le esperienze prima indicate, che si basano sull’integrazione di professionalità interne ed esterne, pongono una riflessione che sicuramente è la prima che vi è venuta in mente: come “sfruttare” queste professionalità esterne per generare valore per l’azienda? perché degli esterni debbono “lavorare” per un’azienda che non è la loro, senza guadagnarci? (l’open source è una sfida agli sviluppatori… il risolvere problemi e migliorare un sistema operativo che è proprietà di tutti per molti di loro è una prova da vincere!). Va da sé che l’azienda informatica che lo usa per creare dei suoi prodotti, ovviamente, ne trae profitto.  

Pochi anni dopo l’inizio della discussione la situazione è completamente cambiata: in una chat di discussione tra esperti, un anonimo (ossia compare solo il suo nickname) ingegnere americano scrive che “nella prima metà del primo decennio del 21 ° secolo, noi ingegneri abbiamo scherzato sul fatto di portare il nostro prezioso codice (che ognuno ha, con fatica, creato per implementare algoritmi, ndr), cucito nelle nostre mutande, per mantenerlo al sicuro… Lasciare che un altro copi il tuo codice sorgente? Devi essere pazzo! …Oggi guardiamo indietro e ridiamo… Oggi, gli sviluppatori non solo danno via il codice gratuitamente, ma fanno di tutto per garantire che gli altri sviluppatori lo trovino facile da usare nel loro lavoro e modificare. Oggi, il lavoro viene svolto in comunità collaborative. E viene fatto nel modo più velocemente, più economico e migliore.” Perché?

Perché quello che insegnano le esperienze come Wikipedia è che le comunità aperte possono fare meglio di quelle chiuse. E questa riflessione è una di quelle che guida chi sperimenta organizzazioni aperte. Creare comunità, anche solo di interni, che lavorino come comunità aperte, senza possesso esclusivo di informazioni, senza gelosie, senza paletti, oltre che silos organizzativi (per una spiegazione su cosa sono le organizzazioni aperte, vedi il nostro post organizzazioni agile). Perché il punto non è avere lavoratori interni o esterni, ma è come aiutarli a lavorare al meglio; il punto non è usare le esperienze di qualcuno per fare profitto, ma creare tutti assieme del valore, che per il singolo sarà lo sviluppo di competenze (che si può rivendere) e per l’azienda prodotti nuovi da vendere. È il senso di comunità una delle pietre angolari di queste esperienze di cui abbiamo accennato; per le aziende o le organizzazioni, la domanda diventa allora: come creare una comunità tra i miei dipendenti, così come avviene tra gli sviluppatori o gli appassionati?

E Tom Sawyer, vi chiederete, cosa c’entra? E, a che trappola ci riferiamo? È quella per il maiale selvatico di cui si parla nel romanzo? No, ovviamente: e non è nemmeno quello che Daniel Pink chiama, in un suo libro, effetto Sawyer. La trappola che intendiamo è quella di considerare i tuoi clienti (esterni, interni) o i fornitori come Tom considera i suoi amici, cercando di far passare come loro gli obiettivi propri. Le persone si fidano degli altri e anche dell’azienda se hanno chiaro cosa possono ottenere (oltre lo stipendio, ovvio!) e contemporaneamente hanno chiaro cosa ne ricava l’azienda. Insomma, in una parola: trasparenza; uno dei cardini delle organizzazioni aperte e “agile”.

Quindi chi ha ruoli manageriali deve abbandonare l’idea di dover far “passare” gli obiettivi operativi condendoli con salse prelibate… almeno all’apparenza! Diciamo all’apparenza, perché poi i giochini vengono sempre a galla. Piuttosto i manager devono ragionare con i collaboratori su quali vantaggi (professionali) possono trarre dal raggiungere certi obiettivi operativi, sia i collaboratori e il manager stesso sia l’azienda.

Nel periodo in cui scriviamo vi sono appena state le elezioni americane: per questo forse ci viene in mente la famosa frase di insediamento alla Casa Bianca di J.F. Kennedy, il 20 gennaio 1961: non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese. Ecco noi, per questo post, la re- interpretiamo così: non chiederti se gli altri possono fare quel lavoro per te, chiediti come si può tutti assieme fare il lavoro di tutti!