La tazza di tè e il disapprendere: per cambiare paradigma bisogna svuotare ciò che abbiamo appreso.

Questa volta iniziamo raccontando una storia: si narra che un professore universitario volesse scoprire che cosa fosse lo Zen, fece visita ad un Maestro della disciplina . Il Maestro lo fece accomodare in casa sua e, con attenzione, ascoltò la domanda del professore: “Maestro, cos’è lo zen?”. Poi, con calma, iniziò a versare del tè nella tazza del professore e, quando la tazza si era colmata, continuò senza scomporsi. Tanto che pareva che il Maestro non si accorgesse che dalla tazza stesse fuoriuscendo il tè. Il professore rimase interdetto. Per qualche secondo non disse nulla, poi leggermente imbarazzato si rivolse, con deferenza, al Maestro e disse: “Guardi che la tazza è piena!”.  “Come questa tazza”, disse il Maestro, “lei è ricolmo delle sue opinioni e di molte congetture. Come posso spiegarle lo Zen se prima non svuota la mente?”. Non è solo importante imparare ad imparare ma sempre di più imparare a disimparare. 

Disapprendere

Siamo abituati a discutere nei convegni e sui social di formazione, di come farla, di tecniche e strumenti, rilevando spesso che non si mette al centro il vero nucleo di tutto il castello, l’apprendimento. E’ per favorire l’apprendimento che si discute di formazione, si analizzano i metodi e si inventano o ri-inventano nuove tecniche o strumenti (più spesso, questi ultimi sono spacciati per metodi). Se mettiamo al centro l’apprendimento, ci sarà forse più chiaro che, per generare nuovi schemi neuronali, bisogna modificare  quelli  già strutturati. Ossia disapprendere.

Come ci ha più volte ricordato in vita il noto sociologo Zygmunt Bauman è necessario non affidarsi alle regole e alle regolarità, bensì a vivere nell’imprevedibilità e disimparare ciò che può diventare una zavorra. Del resto oggi qualunque cosa si impari o si acquisisca (conoscenze, competenze, tecniche…), sembra diventare da un momento all’altro obsoleta, inadeguata, inutile a essere spesa su un mercato che muta sempre più in modo costante, repentino e imprevedibile. Nell’epoca caratterizzata da mutevolezza, incertezza e imprevedibilità, definita dal sociologo modernità liquida, e questo periodo sembra confermarlo, Bauman ritiene importante “imparare a camminare sulle sabbie mobili”, per usare una sua espressione, ossia muoverci in assenza di punti di riferimento permanenti. Per non sprofondare, serve saper rinnovare le proprie conoscenze e allargarle a porzioni di realtà sempre più distanti. Soltanto così è possibile dare un senso, e una direzione, alla complessità in cui siamo immersi. Ma disimparare non significa dimenticare. Niente nasce da zero. Non puoi cancellare quello che hai già imparato o le esperienze che hai vissuto. Anzi, tutto questo bagaglio, soprattutto se è molto vario, rappresenta una risorsa importante per trovare soluzioni creative. Si tratta di continuare ad aggiungere elementi nuovi, modificare quelli vecchi e stabilire nuove connessioni.

E in azienda ?

Sappiamo che le rapide evoluzioni tecnologiche, sociali ed economiche rendono scarsamente attendibili ogni scenario sul futuro. Le organizzazioni devono allenarsi a diventare sempre più adattive, flessibili e capaci di nuovo apprendimento. Ai manager spetta la definizione delle strategie, la spinta per l’innovazione dei modelli di business e di creare le condizioni per il sostegno continuo all’appartenenza aziendale. Ai middle manager in particolare è richiesta la collaborazione nella messa a punto delle strategie, la capacità di individuare opportunità di business e di mantenere e incrementare l’engagement tra i collaboratori. Ai collaboratori il compito di supportare strategie e innovazione e di fare squadra. In questo quadro, ad ogni livello è necessario spostare l’attenzione da una visione del muoversi su un terreno piano a quella di farlo sulle sabbie mobili prima ricordate. La formazione, se ben congegnata, può aiutare in questo senso, orientando ad un nuovo mindset, allenando a svincolarsi dalle pratiche e dalle abitudini precedenti, invitando appunto a ‘disapprendere’. Perché appunto il cambiamento continuo delle coordinate in cui viviamo e lavoriamo pone alle aziende e agli individui la sfida dell’adattabilità e la formazione può essere la chiave per disapprendere ed affrontare i processi di cambiamento continuo e di innovazione in modo differente.  

Il caso:

In un’impresa di servizi che si poneva il problema di dover crescere senza irrigidirsi, di non voler strutturarsi in modo rigido perché in un mercato in continua evoluzione e che non voleva dare l’idea alle persone che fossero chiuse in un confine di ruolo, sempre quello e sempre definito, ci si è chiesti se la formazione poteva svolgere una funzione in questo senso. Come aiutare le persone, ai vari livelli, ad essere flessibili e attivare competenze nuove senza troppa fatica e in poco tempo? Se, da un lato, l’azienda si è mossa sul piano dell’organizzazione, modificando struttura, ruoli e attività alle persone, chiedendo ad ognuno, dai manager agli operativi, di ripensare i propri riferimenti in azienda, dall’altro appunto ha avviato un piano di formazione mirato. L’esperienza che ne è nata, ha visto concepire la formazione come qualcosa di nuovo e non costrittivo, in cui le persone erano in aula libere di poter muoversi o interagire con gli altri agli stimoli che il docente facilitatore portava, ma senza imbrigliare le esperienze svolte in rigidi obiettivi formativi, giocando sia sulla concentrazione sia sulla distrazione che ognuno poteva sperimentare. Gli stimoli hanno permesso di vedere le cose da punti di vista diversi, partendo da situazioni complesse o da esperienze artistiche. In questo modo le persone hanno potuto sviluppare, nel tempo, nuove abitudini di approccio al lavoro, con l’attenzione però a riconoscerle ed a modificarle quando diventano schemi ripetitivi. Ognuno ha infatti potuto individuare dei propri nuovi modi di operare, avendo chiaro come attivare sguardi differenti sulle attività professionali e come restare nella complessità, evitando i meccanismi di semplificazione del nostro cervello. Hanno insomma disimparato e stabilito nuove connessioni. 

Epilogo:

Disapprendere non è facile: potremmo dire che è un abbandono, una perdita, ed in termini psicologici la perdita vuol dire avvicinarsi alla mancanza, alla morte. Apprendere invece è generativo, è come l’amore, non è delegabile e crea qualcosa di nuovo. La domanda che sicuramente, a chi ha la bontà di leggere, sta nascendo è: posso farlo ? Sempre più le aziende mettono al centro l’innovazione, in alcuni casi la creatività (sono due processi separati, sempre da collegare? noi abbiamo dei dubbi, dipende da che innovazione si vuole sviluppare), ma non sempre le organizzazioni attivano dei progetti sistemici, per far diventare veramente l’innovazione pervasiva e quindi facilitare il cambio di mindset e di passo (passo da sabbie mobili, ovviamente!).

Innanzitutto dobbiamo chiederci se noi e i nostri colleghi, collaboratori o dipendenti, dipende sempre da che punto guardiamo le cose …, siamo capaci di metterci in discussione, ma non per una scelta fatta (le scarpe comprate o un bonus ad un collaboratore), ma su il nostro funzionamento, ossia abitudini radicate, credenze aziendali acquisite implicitamente (“si è sempre fatto così”), atteggiamenti verso il nuovo. Poi chiederci quanto siamo mentalmente flessibili ed autocritici e, se avviene in alcuni casi, in situazioni avviene. Questi aspetti sono i presupposti per avviare il dis- apprendimento, che consiste appunto nel vedersi da fuori, modificando lo sguardo e la camminata verso il nuovo.

Sono tante le sfide che, si dice, debbano affrontare le imprese per stare sul mercato, inserite  in una società liquida: diventa importante governare le diverse azioni in modo sinergico, senza trascurare di creare le condizioni perché le persone possano disapprendere ed imparare a creare sempre diverse connessioni neurali.