IN LIBERA USCITA… CAMBIO DI LAVORO, CAMBIO DEL MODO DI LAVORARE E VALORI AZIENDALI

Parleremo di quel fenomeno che è chiamato great resignation oppure big quit, ma non solo per dibattere sulla sua presenza anche in Italia, di queste dimissioni, ma soprattutto per fare alcune riflessioni psicosociali. Pur chiedendoci se non sia ancora presto per mettere a fuoco questo fenomeno, vogliamo concentraci soprattutto su cosa ciò ci segnala. È un cambio di paradigma? Fratello del fenomeno YOLO ( vedi post ), la great resignation sembra porre alcuni interessanti riflessioni. Iniziamo focalizzandoci sul big quit.

GREAT RESIGNATION:

Questo fenomeno, di cui si parla anche in Italia, si evidenzia negli USA nel significativo aumento delle dimissioni: molte persone lasciano il loro lavoro. Le cause indicate sarebbero molto diverse tra loro, comunque legate alla ricerca di benessere lavorativo o ad work-life balance equilibrato. E l’innesco sarebbe appunto stata la pandemia, che ha spinto alcune persone a rivalutare le proprie priorità. Viene citato uno studio McKinsey che rivela che il 40% dei lavoratori a livello mondiale è intenzionato a cambiare lavoro nei mesi successivi.

Negli Stati Uniti è stato misurato in circa 4 milioni di persona al mese, nel 2021, il numero delle persone che ha lasciato il posto di lavoro, in particolare in concomitanza della ripresa economica: in particolare giovani con professionali qualificate, con un “posto fisso”. In Europa il fenomeno non sembra replicarsi: le riflessioni degli esperti del nostro continente indicano che il mercato del lavoro in Europa è costruito in modo differente agli USA e ciò non favorirebbe il fenomeno; c’è chi segnala che vi sarebbe piuttosto nelle persone la voglia di cambiare il modo di lavorare, più che il lavoro stesso. E in Italia? 

Secondo la lettura dei dati, relativa però al secondo e terzo trimestre dell’anno appena passato, elaborata a metà gennaio 2022 da Francesco Armillei sulla Lavoce.info, sarebbe ancora presto per avere letture approfondite del fenomeno. Emergono dimissioni significativamente rilevanti per gli uomini (circa due terzi rispetto alle donne), per chi aveva un contratto a tempo determinato da due o tre anni e principalmente per chi lavora nel settore delle costruzioni (quasi il doppio della sanità e più del doppio manifatturiero, gli altri settori che si segnalano per i dati più rilevanti). Quindi sembra esserci una certa mobilità professionale, magari influenzata da fattori che stanno incidendo sul nostro mercato del lavoro attuale, come i bonus ristrutturazioni. 

Una ricerca italiana svolta direttamente con le imprese, è quella di AIDP (Associazione per la direzione del personale), uscita in gennaio 2022, evidenzia che effettivamente ci sono maggiori dimissioni rispetto al passato: aumento circoscritto però nello specifico a circa il 25 % dei dipendenti nella fascia d'età 26-35 anni, di cui 82% con mansioni impiegatizie e, per il 79%, residenti nelle regioni del Nord Italia. Questa ricerca ha coinvolto 600 aziende e si rivolge ai direttori del personale di queste realtà, organizzazioni che solo nel 12% dei casi ha all’attivo piani di incentivazione all’uscita. Le aziende segnalano che l’impatto delle dimissioni è stato tra il 15% e il 30% maggiore rispetto agli anni precedenti. Le cause delle dimissioni individuate da questa ricerca sarebbero o legate alle dinamiche del mercato del lavoro (48% delle risposte si riferisce alla ripresa del mercato del lavoro; il 38% avere maggiori opportunità di carriera; il 47% ricerca di condizioni economiche più favorevoli) oppure motivazioni personali (41% l’aspirazione ad un maggior equilibrio tra vita privata e lavorativa; il 25% la ricerca di un nuovo senso della vita). 

Le motivazioni relative all’azienda che viene lasciata invece sono indicate nel 20% dei casi, in particolare per il clima di lavoro negativo interno all’azienda. Bisogna dire che la ricerca coinvolge le aziende e non i lavoratori direttamente, per cui i dati, in particolare quelli relativi alle cause, è necessario che siano presi con le “pinze”: una cosa è chiederlo direttamente alle persone, una cosa è il riportato, anche autorevole, dei responsabili delle risorse umane.  

RIFLESSIONI GENERALI

Le riflessioni che emergono, ci pare, siano due: la prima è che la specificità del mercato del lavoro nazionale non può essere ignorata, le sue dinamiche specifiche e i fattori nazionali intervengono su di esso. Il rilancio del mercato del lavoro italiano, con spinte e contro-spinte, segnala, nel terzo trimestre del 2021 (ultimo dato disponibile), un aumento dell’occupazione e un calo di disoccupazione ed anche dei lavoratori cosiddetti indipendenti: contratti a tempo determinato più numerosi di quelli a T.I. e leggero calo degli indipendenti indicano, crediamo, poca sicurezza delle aziende nella crescita dell’economia (dopo decenni di crescita asfittica, tassi elevati di disoccupazione, soprattutto giovanile). E la maggioranza delle persone cerca la sicurezza economica. Nelle aree più sviluppate del paese, dove il mercato del lavoro è più dinamico, soprattutto per chi si sta costruendo il suo percorso professionale, i giovani con una specializzazione lavorativa, vi è logicamente la ricerca di soluzioni che immaginano migliori, sia per il ruolo aziendali sia per le modalità di lavoro. 

E qui arriviamo alla seconda riflessione, riprendendo quanto si segnala a livello europeo, ossia il ripensamento del modo di lavorare:  la pandemia ha fatto confrontare, in Italia per la prima volta, le persone con il cosiddetto smartworking (di cui abbiamo già discusso più volte su CambiarParadigma, vedi ad esempio, smartworking & company): per alcuni la richiesta di poter svolgere una parte dell’orario di lavoro settimanale in modalità SW, può essere un modo per, ad esempio, riequilibrare la vita personale e professionale, diminuendo le ore di viaggio, con la conseguenza di avere più tempo per sé stessi. 

La worklife balance è un aspetto non nuovo, particolarmente importante per chi interpreta anche ruoli sociali che richiedono, oltre a lavorare, ore di impegno verso figli, casa, genitori anziani. E, ormai tutti lo sappiamo, che uno smartworking pienamente attuato può venire incontro alle persone che hanno un’attività professionale compatibile con questa forma di lavoro e che necessitano pure di una certa flessibilità per esigenze familiari o personali. Certo, come abbiamo appunto sperimentato e raccontato, nel nostro post appena ricordato, ci vuole una cultura organizzativa che permetta la sua vera e propria attuazione.

CULTURA D’IMPRESA: I VALORI AZIENDALI

Cosa non rappresenta di più una cultura aziendale se non i valori aziendali? Ognuno è portatore dei propri valori lavorativi, messi in una gerarchia d’importanza, e con questi si confronta con il mondo del lavoro e con quelli che vengono proposti dall’organizzazione in cui la persona opera. Le ricerche universitarie ci dicono, e la nostra esperienza lo conferma, che la performance del singolo e quella collettiva è migliore quando le persone interne all’organizzazione trovano consonanza tra i propri valori e quelli aziendali. La consonanza può non essere totale ma basta per rendere il contesto organizzativo professionalmente ed emozionalmente più vivibile da parte delle persone, che sentiranno di impegnarsi di più e di cooperare al meglio con gli altri. Per questo è importante per le organizzazioni lavorare sulla cultura interna e costruire i valori come azione collettiva: serve per aiutare l’incontro dipendente-azienda nelle sue diverse fasi (selezione, inserimento, sviluppo e benessere organizzativo). 

Ma i valori interni devono essere anche lo spunto per riflettere sulla compatibilità tra essi e, ad esempio, l’innovazione che si ritiene di portare in azienda, ai diversi livelli, anche per quanto riguarda l’introduzione di nuovi modi di lavorare come lo smartworking. Rispetto alla nostra cultura aziendale e ai nostri valori, come organizziamo il lavoro da remoto? Quante regole fissiamo (ovvero quanta flessibilità diamo e che controllo vogliamo avere)? 

Sono spunti per ribadire che alla cultura (o alle sottoculture interne) non si sfugge e bisogna fare i conti con i valori che rappresentano l’organizzazione. I giovani devono conoscere i propri valori (oltre che altri aspetti personali) per incrociare le aziende più in linea con loro: cambiare in questo senso è logico, anche se sarebbe opportuno, come noi consigliamo, che i giovani giochino d’anticipo e così come si formano così devono orientarsi. Le aziende devono quindi far conoscere i loro valori, non solo in fase di selezione ma nella pratica quotidiana per far cogliere ai dipendenti le consonanze. Per evitare che le persone, in particolare i giovani, che sono naturalmente alla ricerca di sé stessi e delle migliori condizioni di benessere lavorativo e personale, vadano altrove a cercare questa corrispondenza, siano insomma… in libera uscita!