Chi semina eventi, non raccoglie competenze: la centralità dell’apprendimento e la gestione della formazione nelle organizzazioni

La gestione della formazione può determinare il successo dell’apprendimento delle persone dell’organizzazione. Questa volta non iniziamo il post con una domanda, come è capitato di fare, ma con un’affermazione, che non vuole essere perentoria ma dettata dalla nostra esperienza. In questo post, appunto, affrontiamo il tema del modello di gestione della formazione che è insito in ogni azienda o Ente. La realizzazione anche curata e di qualità di un seminario formativo o di un'altra esperienza didattica, non automaticamente produce apprendimento: anche considerando l’adeguato tempo del suo sviluppo, che non è immediato, ma avviene dopo un certo periodo, non basta creare l’opportunità perché le persone apprendano ma bisogna costruire le condizioni affinché ciò avvenga. Leggendo di seguito puoi trovare alcuni spunti riguardo all’apprendimento come processo, al rapporto tra comunicazione interna e formazione, alla concezione della formazione.

Formazione e comunicazione interna.

Noi crediamo che le due funzioni aziendali, un tempo lontane come approcci e logiche, nel tempo si siano influenzate a vicenda, partendo dalle convention ed eventi aziendali similari, contaminandosi e producendo, in alcuni casi, la trasformazione della formazione in un evento. La conseguenza è che la formazione è appunto organizzata come un evento in cui l'attenzione è più concentrata sulla sua realizzazione, sul modo giusto di organizzarla, più che sul processo di apprendimento. 

La ricerca dell’innovazione della formazione, con questa ibridazione si è diretta verso la spettacolarizzazione dell’appuntamento didattico, un momento “unico” (non nel senso della durata) che deve sorprendere, meravigliare e “spiazzare” i partecipanti. Ed ecco, i veri protagonisti della formazione, diventano allora figure – sfondo della formazione, sempre meno in primo piano: la connivenza con le esigenze “produttive” (“non hanno tempo per essere consultati”) li trasforma in oggetti della formazione e non soggetti. La connivenza è “coltivata” da chi si occupa di formazione, sia dalla funzione aziendale sia dai consulenti: per chi è interno all’azienda vi è forse la necessità di dimostrarsi sempre sul “pezzo”, in linea con le tendenze che sembrano portare avanti le altre organizzazioni; i consulenti, desiderosi di essere visibili, di differenziarsi dai concorrenti, inseguendo le novità. La parola d’ordine allora diventa “i partecipanti sono stanchi delle solite aule tradizionali”, “fateli divertire” e affermazioni simili: si badi bene, non pronunciate direttamente dai partecipanti…


Formazione come evento.

La formazione diventa allora un “evento”, sempre diverso dai precedenti, sempre più spettacolare, si pensi ad esempio al… team building: una sorta di sineddoche, una parola per il tutto, sia che vi sia un bisogno di migliorare il lavoro di team (ovviamente altro dalla costruzione di un team…) o una esigenza di integrazione interfunzionale (ovviamente altro dalla costruzione di un singolo team…) o una convention aziendale o di una funzione (ovviamente altro dalla costruzione di un team di lavoro…). L’outdoor nelle forme più diverse e varie che il tempo ha generato, dal coinvolgimento del CAI alle slitte trainate dai cani oppure le formule indoor (dal cooking con cuochi più o meno chef alle cene con delitto, l’elenco è lungo…). Ma anche fuori dall’evento “speciale”, la formazione rischia di essere concepita e percepita dai partecipanti come un avvenimento, non un processo. 

La cura passa dal processo di apprendimento al momento formativo, alla “scenografia” (uno di noi ha svolto della formazione tradizionale in una discoteca…), agli effetti speciali per “catturare” l’attenzione (“per scongelare i partecipanti devi…”), per rendere memorabile l’attività, appunto come un evento (come un programma televisivo). Non prevedendo assotlutamente il tema del dis-apprendimento (si veda La tazza di tè e il disapprendere).


Formazione come processo.

Le organizzazioni che cercano risultati migliori dalle loro iniziative di formazione devono considerare l'apprendimento come un processo: un processo che inizia con un’analisi dei bisogni (e della domanda, in alcuni casi) fino ad una valutazione strutturata dell’attività formativa attuata. Questo vuol dire che è necessario svolgere tutte le fasi del processo e non solo come prassi ma come scoperta, in una logica attiva e continua: non solo i follow – up a distanza, ma anche un approccio (se si vuole, anche misto presenza e distanza, non vogliamo entrare in questo post nelle loro differenze) che sia appunto di costruzione di un apprendimento che abbia senso per ogni partecipante; ad esempio, considerare veramente le differenze di stili di apprendimento, collegare la formazione con l’attività quotidiana (un pre-work può non bastare…); ma soprattutto coinvolgere i destinatari finali, far diventare soggetti di apprendimento, liberi di costruirsi il proprio apprendimento. Ma non una “delega” ai partecipanti, che devono poi inserire tra le attività quotidiane anche l’obbligo di guardare pillole formative, si, perché c’è, sostanzialmente, un obbligo (anche non formale, ma atteso da chi presidia la formazione in azienda). 

Una partecipazione alla formazione in cui il protagonista sia l’apprendimento, e non il docente narcisista oppure il rigido impianto messo a punto da chi progetta (internamente e/o esternamente): l’apprendimento facilitato dal docente e dalla struttura formativa, ma “sposato” dai partecipanti, che sono stati primi attori del processo, dall’inizio alla fine. Evitando di far prevalere una formazione, qualunque sia il tema, che sia conformità (“dobbiamo farla”), che sia push (“mi hanno mandato a questo corso…”) e/o che sia soprattutto un evento senza un progetto attorno, come una mentina con il buco…  

Insomma, un cambio di paradigma nell'approccio all'apprendimento!

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