Disinnescare l’escalation: il conflitto nelle organizzazioni

Viviamo un periodo storico che ci mette di fronte a fatti gravi che ci sembravano lontani nel tempo o nello spazio: guerra è la parola prima enunciata per affrontare la pandemia e ora pronunciata per definire oggi quello che nessuno avrebbe voluto vedere. I conflitti, su scala e con modalità molto diverse, sono presenti comunque nelle nostre giornate, anche lavorative: dalle lotte intestine di cordate contrapposte che si fronteggiano in un’azienda, a conflitti tra funzioni, a guerre personali tra capi e collaboratori o tra colleghi. 

A tutti capita o è capitato di vivere un conflitto nella propria organizzazione, più o meno aperto e dichiarato oppure strisciante e “sussurrato”. Stare in un conflitto non prevede una sola opzione per affrontarlo, come a molti sembra, ma è possibile cambiar paradigma nell’approccio per evitare la sua escalation. Lo si può fare, adottando, appunto, una mentalità che premetta di vedere nel conflitto una possibilità di crescita attraverso una gestione non competitiva (mors tua vita mea) ma cooperativa della “disputa”. In questo post troverete le indicazioni per costruirsi un mindset diverso e, così, evitare di essere co-autori dell’escalation del conflitto, affrontando al meglio i passi necessari per la sua ottimale risoluzione.

 Il processo di escalation di un conflitto

Si possono distinguere tre macro-fasi di un processo di escalation del conflitto, che comprendono diverse sottofasi con cui si può identificare l’escalation del conflitto: quest’ultime, nella realtà, si presentano in modo non lineare, ma ad ogni possibile livello, vi possono essere cambiamenti di direzione, balzi e blocchi. La prima macro-fase è quella in cui le differenti opinioni si cristallizzano in punti di vista contrapposti, la percezione si fa selettiva e si colgono solo gli aspetti ritenuti positivi rispetto a quelli della controparte; poi si configurano i ruoli delle persone coinvolte (contendenti o leader delle due parti, simpatizzanti e spettatori). Quindi avviene che vi sono sempre meno progressi, in particolare, a livello di comunicazione e le parti iniziano a considerare che non è possibile persuadere l’altro, iniziando ad agire autonomamente per i propri fini. In questa macro-fase vi è ancora la speranza che possa esistere una soluzione che porti benefici ad entrambe le parti. 

Nella macro-fase successiva, vanno a scemare le motivazioni di tipo cooperativo e prevalgono solo quelle competitive: in una frase, si vince o si perde; si passa a considerare che è l’altra persona o parte che costituisce il problema a tutti gli effetti, si perde il senso del riconoscimento (in senso psicologico) dell’altro. Le parti perdono la fiducia nella possibilità di un dialogo e rafforzando la percezione che l’altro (o l’altra parte) sono da “disprezzare”, che vi può essere solo una contrapposizione. Prendono il sopravvento logiche, comportamenti e dinamiche psicologiche tipici dello scontro verbale. 

La terza macro-fase può essere caratterizzata dalla logica dello scontro aperto, con l’uso di violenza verbale e, in alcuni casi, di aggressioni. Il punto focale diventano le azioni compiute dalle parti, iniziano gli atti di “sabotaggio”, si cercherà di distruggere il potere e le risorse (in senso lato) dell’altro o dell’altra fazione. Si adotta la logica perdo-perdi, ogni parte è a disposta quindi a tutto pur di battere l’avversario.

Il nostro atteggiamento

La possibilità di innescare un’escalation del conflitto più o meno rapida è sicuramente agevolata e rafforzata dalle posizioni che noi abbiamo di fronte al conflitto. Il nostro l’atteggiamento, è il nodo centrale: tendenzialmente siamo abituati a adottare un comportamento che ha alla base una visione “negativa” del conflitto, ossia non costruttiva e cooperativa. In questo modo determiniamo il nostro posizionamento verso il conflitto e gli atteggiamenti più utilizzati sono quelli che trovate indicati nella figura di seguito:

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Si va, dunque, dalla non capacità di gestione della rabbia che distoglie dai veri obiettivi, alla paura del conflitto, per cui si cerca di evitarlo o di negarlo (in fondo, non è poi così importante…), ma anche al nervosismo e all’insoddisfazione che si ripercuote su altre dimensioni della nostra vita o all’ansia che diventa assolutamente preponderante nella nostra vita.

 Come disinnescare il conflitto:

Vi sono alcuni passi che consigliamo di fare per prendere la strada migliore per non alimentare il conflitto, e qui lì richiamiamo nei loro aspetti più generali: i primi passi sono di tipo cognitivo e sono utili perché il risolvere un conflitto vuol dire anche creare un ambiente consono nel quale vi possano essere spazi di riconoscimento reciproco. Fondamentale è quindi il raffreddamento emotivo. Attraverso questi passi, pur non venendo meno il coinvolgimento nell’azione, aspetto che è fondamentale e positivo, si evita di mettere in atto le manifestazioni più istintuali. Ciò consente di agire il conflitto in una dimensione analitica, propedeutica alla risoluzione dello stesso. 

Il passo successivo è quello di esprimere i propri bisogni, perché si permette così la creazione di una relazione fra i contendenti, fondamentale per creare un “ambiente” cooperativo. Una volta stabilito il clima cooperativo sarà possibile la ricerca di soluzioni comuni soddisfacenti per entrambi. L’ultimo passo è consolidare l’accordo nei momenti di calma perché ci ricorda che la cosa più importante è la relazione.

Un conflitto non si risolve sempre bene; le soluzioni possono essere tante e, talune, poco gradevoli. Le soluzioni del conflitto si giocano sull’asse della volontà di riavvicinamento e il rispetto dell’altro, solo così si evitano le escalation più drammatiche, magari con ripercussioni per lungo tempo o per sempre. Bisogna, dunque, far collimare la dimensione del soddisfacimento degli interessi personali con la dimensione relazionale e collettiva. E se lo impariamo a fare tutti, ci possiamo augurare che anche i conflitti globali…

 

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