Apprendere dagli errori? È un errore! (ovvero …)

Lo sviluppo dell’innovazione nelle organizzazioni, di cui tanto si parla, giustamente, da diversi anni, comprende anche la crescita, nelle aziende, delle prassi della “tolleranza” dell’errore, ma non nel senso dei sistemi di misurazione: saper cogliere l’errore come un segnale di un problema più ampio, non solo come mancanza di una persona. L’errore umano è spesso indicato come la causa dell’incidente, del danno economico, dello sbaglio più o meno macroscopico: è vero che spesso l’errore di una persona genera un danno, un incidente o altro, ma se si sposta lo sguardo, si scopre che è una visione parziale di ciò che è avvenuto. Ma il sistema organizzativo, in modo non intenzionale, quali precondizioni ha determinato perché, prima o poi, ciò accadesse? Causato magari non da quella persona ma invece da un’altra o da una terza? Vi sono criticità latenti che non si rivelano finché l’errore compare e che piuttosto derivano da molteplici eventi diversi, entrando in relazione tra loro. Come viene gestito l’errore, qualunque esso sia, ci rivela molto di un’organizzazione.

Visione organizzativa e manageriale

Gli eventi che avvengono quotidianamente in tutte le organizzazioni possono determinare successi come fallimenti. Per valutare appieno il “fallimento”, esso, come prima indicato, va considerato in una prospettiva ampia, ossia guardando ai diversi processi che avvengono all’interno dell’organizzazione ma anche a livello inter-organizzativo: i processi organizzativi in senso stretto e quelli tecnologici, ma anche quelli psicosociali e culturali. In conseguenza di questa visione, per lavorare sull’errore è necessario che si considerino diversi fattori, oltre a quello umano e quello tecnologico (es. per gli incidenti può essere il guasto, l’usura, …): fattori come i sistema di presa di decisione, i flussi di comunicazione e lo scambio di informazioni, la gestione delle conoscenze e la sua condivisione all’interno dell’organizzazione, così come il clima aziendale e la cultura organizzativa prevalente e le sotto-culture (per organizzazioni di grandi dimensioni o in particolari condizioni). Parallelamente una gestione manageriale può determinare oppure rinforzare una cultura non funzionale all’innovazione e allo sviluppo dell’impresa: quando premia direttamente oppure indirettamente (non intervenendo) la cultura della colpa, della caccia al colpevole e l’attribuzione al capro espiatorio di tutto ciò che avviene di negativo. Chi lavora per progetti nelle organizzazioni, ti racconta che gira uno schema scherzoso sulle “vere” fasi di un progetto, e, più o meno, le descrive così:

·       Fase 1: quella dell’entusiasmo;

·       Fase 2: quella della disillusione;

·       Fase 3: quella del panico;

·       Fase 4: quella della caccia al colpevole;

·       Fase 5: quella della punizione dell’innocente;

·       Fase 6: quella della premiazione a chi non ha fatto niente.

Forse è per evitare progetti così gestiti, che è nato il framework agile e la metodologia scrum! Per chi volesse approfondire questi nuovi approcci, veda i nostri precedenti post. Ma ritorniamo sul tema dell’errore. Far crescere un’organizzazione nell’ambito dell’innovazione vuol dire permettere che le persone si possano sentire libere di provare e di sbagliare (si pensi ad esempio alla creazione del post-it). E ciò dipende molto dalla cultura organizzativa della realtà in cui si agisce (premia o no l’uscita dagli schemi non fine a sé stessa?) e dalla gestione manageriale (il capo è il primo che cerca un colpevole?).

Blame culture

Vi sono aziende o Enti in cui la ricerca del colpevole è automatica, si potrebbe dire, ossia sistematica, continua e naturale: “chi è stato?” è una delle frasi tipiche che si sentono sul lavoro e che colpevolizza l’errore come umano e non come il risultato di una serie di fattori. È la legge della lettura più semplice: un errore uguale una persona! La blame culture, come la chiamano gli anglosassoni, è un elemento distintivo degli ambienti lavorativi e, se un candidato potesse coglierlo già nei colloqui di lavoro, sarebbe uno di quegli elementi da considerare nella valutazione delle opportunità lavorative, se si è nella posizione di poter scegliere. Per restare nell’ambito dei progetti, la cultura della colpa la si vede nelle situazioni di gruppo di lavoro. Nel vostro team, o in uno di quelli della vostra organizzazione, quando qualcosa va storto, si dà la caccia al colpevole e lo si addita al “pubblico ludibrio” oppure ci si assume collettivamente la responsabilità dell’accaduto? Se all’interno di un team le dinamiche relazionali si basano su fiducia e collaborazione, in modo consolidato, molto probabilmente ci si assumerà assieme la colpa dell’errore; se, invece, queste dinamiche sono improntate alla recriminazione reciproca, alla diffidenza e alla competizione individuale, allora sarà più facile che prevalga una spirale di ricerca del capro espiatorio: attenzione però! Razionalmente, può essere che c’è un lui o una lei che hanno effettivamente commesso un errore (chi non fa non sbaglia, dice un detto), ma ricordiamoci che esso è il prodotto di un agire organizzativo, come prima indicato. Inoltre, il capro espiatorio serve psicologicamente ai componenti per non mettere in discussione lo status quo, ossia non prendere per mano il team e farlo evolvere come luogo di apprendimento. Qui è importante l’intervento del manager o di chi ha responsabilità del team: avallare una cultura di questo tipo vuol dire non creare le condizioni per l’innovazione. È quindi indispensabile che il top management, in primis, avvii delle azioni che portino alla generazione di un sistema di apprendimento dagli errori, che cioè li portino a galla, li analizzino in tutti i suoi aspetti e che generino nelle persone comprensione di cosa ci sia da imparare da quel fatto. Qualsiasi iniziativa di apprendimento dagli errori in contesti basati sulla cultura della colpa rischia il fallimento: nelle organizzazioni con l’ossessione della colpa, anche se si avviano iniziative che favoriscono l’innovazione, non essendovi la libertà individuale di provare o quella di identificare le vere cause dei problemi, è probabile che si generi molta diffidenza verso il nuovo progetto, e che dopo un avvio sprint, si debbano trovare soluzioni organizzative che medino tra le diverse posizioni in gioco, imbrigliando e svilendo il progetto, con la scusa dell’adattamento alla realtà aziendale.

Epilogo

In un mondo che si sta evolvendo rapidamente, le aziende sono spinte ad essere sistemi aperti, open in tanti aspetti della vita organizzativa (open leadership, open mind, …), passando da gerarchie accentrate a network decentrati: le aziende hanno quindi la necessità di caratterizzarsi per le competenze distintive, per i talenti che vi lavorano e per un solido clima “fiduciario”. L’apertura, openness, caratterizza queste organizzazioni; invece possiamo definire aziende “chiuse”, quelle che colpevolizzano chiunque metta in discussione lo status quo. Non basta dichiararsi innovativi, ovviamente, così come investire in strumenti e competenze “nuove”, bisogna avere sistemi e prassi gestionali all’altezza, che incentivino il miglioramento continuo a tutti i livelli, garantendo fiducia e attenzione vera alle persone. E, nel tempo, modificare così la cultura aziendale.