S.C.R.U.M. vuole dire Squadre Costruite per essere Responsabili Uniche Mature
L’approccio SCRUM si caratterizza per team auto-organizzati, come presentato nel post precedente, in cui le persone assieme definiscono il lavoro da svolgere e come raggiungere i risultati e si dividono gli incarichi. Ma quali sono le basi perché tutto questo funzioni ? Quali sono i meccanismi psicosociali che permettono, magari senza la consapevolezza degli attori stessi, che ciò avvenga? Non basta dare autonomia alle persone che lavorano con noi e farle auto-organizzare perché, magicamente, ciò si realizzi … È come quando un gruppo di conoscenti, che si è trovato poche volte per cenare o per andare al cinema, si da un obiettivo più impegnativo, pianificare una vacanza assieme, un tour in una zona particolare del mondo, senza appoggiarsi ad un’agenzia specializzata: partiranno tutti insieme oppure il gruppo si disgregherà discutendo sulle tappe da fare? E se partiranno tutti, al termine si saluteranno ancora ? Per scommettere sul successo di questo viaggio dovremmo conoscere alcuni fattori di “partenza” che caratterizzano il team di vacanzieri: innanzitutto la visione di vacanza che ognuno ha in mente ed anche, però, il loro grado di fiducia reciproca, di maturità psicologica nelle relazioni; ovviamente, in viaggio poi le regole e i ruoli che si determineranno, possono variare di molto la nostra previsione ... Fuori di metafora, come si può aiutare un team scrum ad esserlo in senso pieno oppure un’équipe “classica” a diventarlo ?
Team ovvero relazioni costanti:
Sappiamo per esperienza che la sola pratica di un nuovo modo di lavorare non è detto che cambi gli atteggiamenti delle persone. Eppure è ciò che, nella presentazione di metodologie e strumenti agile, compreso lo scrum, molti fanno, puntando sulle prassi operative. Ma la lunga pratica con i team aziendali e gli studi sul funzionamento dei gruppi di lavoro, ci segnalano la necessità che i membri del team abbiano un certo grado di maturità psicologia e che tra loro vi sia un clima di fiducia. Perché ? Le riunioni scrum, brevi ma quotidiane, in cui si tirano fuori i problemi, in cui ognuno dice cosa ha fatto per far funzionare il team, cosa si è fatto bene e cosa va migliorato, presuppongono un certo grado di libertà di espressione senza giudizio, di autonomia di pensiero, di svincolo da condizionamenti organizzativi ed anche personali. Se sono, ad esempio, presenti questi condizionamenti, essi possono o frenare le persone oppure amplificare atteggiamenti impositivi di alcuni. E tutto ciò avviene nell’ambito di relazioni di lavoro continue e, spesso, incessanti, magari caratterizzate anche dall’essere ravvicinate fisicamente. Risulta allora fondamentale avere team con membri che abbiano relazioni “mature” psicologicamente, dal punto di vista emotivo e dei comportamenti sociali, al fine di permettere la creazione di un clima interno improntato alla fiducia.
Il caso dei gruppi di progetto
In un’azienda, che opera in un settore economico in crescita, che sta passando da poche unità a diverse decine, dunque in una fase “tumultuosa”, si decide di avviare diversi gruppi di progetto interfunzionali (in alcuni casi, solo parzialmente) per risolvere i problemi di coordinamento e miglioramento delle funzioni. Non essendovi una struttura organizzativa, se non minima, i team sono concepiti come gruppi auto-organizzati che lavorano su obiettivi specifici. Sono principalmente composti da dipendenti giovani, in un’azienda poco formale e poco gerarchica. I gruppi in parte funzionano ed in parte no, terminando così i loro mandati. A distanza di tempo, l’avvio di nuovi team interfunzionali trova nei partecipanti “nominati” delle resistenze, che l’azienda si spiega poco, non il linea con il clima interno: alla richiesta dei capi diretti, le motivazioni addotte sono legate al senso di perdita di tempo che le persone percepiscono. Viene affidato un incarico alla consulenza, con il mandato esplorativo di capire il perché: più in là nel tempo l’azienda vuole creare dei team permanenti secondo il framework scrum e non vuole correre “rischi”.
Un focus group con alcuni dipendenti fa emergere il senso di mal funzionamento e di incompiutezza che hanno lasciato nelle persone i team auto-organizzati: approfondendo anche con interviste, affiora il tema della fiducia nell’organizzazione. Si decide, dunque, che si deve far evolvere la fiducia presente, più di tipo razionale e legata ai reciproci interessi tra le persone, verso una fiducia identificativa, basata sulla condivisione emotiva. Si individua in un’attività outdoor, costruita ad hoc, che si svolge su un campo di rugby, il modo per avviare la realizzazione dell’obiettivo: le attività proposte dagli educatori rugbisti permettono, al di là dell’entusiasmo suscitato, di far vivere e sviluppare l’unità di intenti e l’allineamento tra le persone, avendo prima assieme individuato l’obiettivo comune. Ancora a distanza di tempo, oltre le episodiche reminescenze di quell’attività “particolare”, i capi sottolineano come sia cambiato l’atteggiamento verso non solo i team aziendali, ma soprattutto verso gli altri e come le aspettative reciproche siano più realistiche e la visione dell’obiettivo sia più facilmente condivisa.
Dunque ?:
Se il livello di maturità psicologica è il presupposto per delle relazioni adeguate, l’affidarsi all’altro è uno stato che va costruito, fino allo stadio che alcuni studiosi chiamano della fiducia identificativa. Stadio che permette la condivisione emotiva di quello che sia sta facendo insieme, andando oltre alla fiducia basata solo sugli interessi personali: la fiducia identificativa facendo condividere le situazioni ad un livello anche emotivo, rende le persone più legate tra loro e consapevoli di questo legame non solo funzionale ma anche personale. Un modo per avere nelle organizzazioni persone uniche, nel senso che possono condividere la loro unicità ad ogni livello con i colleghi, mature perché più complete psicologicamente come singoli e come squadra e dunque più responsabili per ciò che, direttamente e indirettamente, possono generare.