La regola dell’equilibrio: le aziende tra indipendenza della persona e dipendenza dal team
In questo post useremo, di nuovo, la letteratura per raccontare l’equilibrio tra lo spazio individuale e quello del gruppo e dell’organizzazione. Un racconto d’autore per ragionare sul lavoro individuale, sul lavoro di team, sul lavoro del singolo e quello organizzato. È appunto il tema del rapporto persona-organizzazione: un rapporto sempre più insidiato dalla crescente incertezza che caratterizza la nostra epoca. È proprio in momenti come questi che solitamente occorre prestare, come aziende, Enti e come manager, ancor più attenzione a conciliare bisogni apparentemente contradditori quali quelli individuali e quelli organizzativi. Del resto da sempre la vita organizzativa, in buona sostanza, si esprime nella ricerca di un equilibrio ottimale tra indipendenza e dipendenza, ovvero tra possibilità per le persone di esprimere pienamente la loro soggettività e necessità aziendale di promuovere senso di appartenenza, coesione di gruppo e collaborazione.
Il presupposto da cui vogliamo partire si concretizza nella domanda: “un’organizzazione ha soltanto la funzione di eguagliare e tipicizzare o anche di individualizzare, di promuovere quei caratteri e quelle modalità di comportamento per le quali una persona si differenzia da tutti gli altri membri che la compongono?”. Come al solito, partiamo dal testo, di modo che la narrazione, che è racconto, sia anche cronaca della vita organizzativa. Alla fine del testo letterario, troverete le nostre considerazioni sul tema e il nostro approccio consulenziale alle prassi di gestione delle persone, che devono andare oltre il buonsenso e favorire l’equilibrio tra ogni singola persona e la sua organizzazione, tra questa e il team, tra il gruppo di cui si fa parte e le aspirazioni, le motivazioni, i valori, le passioni individuali.
Il racconto…
”Tra noi, pur essendoci soltanto sette otto anni di differenza, c'è una formazione diversa; la tua è, diciamo, personalistica, la mia è una formazione di gruppo. Io sono stato preparato a essere la perfetta anonima rotella di un organismo puntuale, efficiente. Tu, che hai cominciato tanto presto e che sei sullo stesso piano di quelli che hanno dieci anni più di te...» ("Grazie alla Mamma si disse Giulio) «... lavori come lavorava mio padre nel campo medico. Hai una personalità a tendenza egemonica.» «Questo poi...» «Non voglio criticarti, cerca di capirmi. Voi siete degli accentratori, noi aspiriamo a essere degli operatori. Inoltre siamo, direi, intercambiabili: uno dei miei colleghi con pochi giorni di pratica, può prendere il mio posto; mentre non uno dei tuoi coetanei, che abbia il tuo stesso valore professionale, potrebbe prendere il tuo. Voi avete un modo di pensare che varia dall'uno all'altro (per questo potete rivaleggiare). Le persone che assistete sono, diciamo, nelle mani di un amico; quelle che s'affidano a noi non hanno che i servizi di una organizzazione della quale è superfluo stabilire i singoli connotati... Io sono stato attirato da te, quando ci siamo conosciuti.» «Non me ne sono mai accorto.» «Sono venuto con te per simpatia o, se preferisci, per culto della personalità, forse per una istanza narcisistica. Comunque sia, questo comportava l'abbandono del gruppo di cui facevo parte alla Olivotti. Alla Olivotti, inoltre, è riscontrabile una bipolarità di vecchio e di nuovo nel sistema — te ne accennavo poc'anzi — così anche in sede di progettazione può aversi coesistenza di spirito di équipe e di residui di individualismo integrati da un messianismo taumaturgico; si vuole, insomma, la inesorabilità del congegno, ma non l'alienazione del singolo. Io sono venuto da te come un transfuga, mosso da rivendicazioni di prestigio, molto probabilmente, o, come ti dicevo, magari da un rigurgito di futilità o da curiosità behaviouristiche. … Volevo arrivare a sedermi dietro un bel tavolo Impero, come questo, in un ufficio ben arredato, al centro di Roma, piuttosto che in una celletta di plexiglass e acciaio.” Questo testo fa parte del romanzo di Alba De Cespedes, La Bambolona. (pag.227-228, Mondadori, 1967).
Individuo, gruppo e
organizzazione
Sappiamo per esperienza che un nodo cruciale organizzativo è rappresentato dall’abilità di mantenere il giusto equilibrio tra il bisogno di indipendenza della persona e il bisogno di condivisione, affiliazione e integrazione di cui l’organizzazione necessita e che promuove. La leadership, ai diversi livelli, bilancia la necessità di essere membri dell’organizzazione e del gruppo e l’appartenenza al team e all’organizzazione. La leadership, intesa sempre, ovviamente, in senso psicosociale e non come etichetta organizzativa, garantisce e presidia sia la soddisfazione dei bisogni individuali sia di quelli del gruppo, favorendo l’armonia tra differenziazione e omologazione, gestendo le forze che spingono all’individuazione delle specificità personali e quelle che spingono al livellamento e alla similitudine, verso un equilibrio che non può essere che quasi stazionario. Le persone e le organizzazioni sono però inserite nei contesti culturali dei rispettivi paesi e ciò può facilitare o meno il “lavoro” della leadership e le policies organizzative: le ricerche di Hofstede e Trompenaars hanno confermato come in particolare l’Italia sia una nazione caratterizzata da elevata competizione, ossia possegga una cultura in cui viene enfatizzato il lavoro individuale rispetto al lavoro di gruppo (come emerge nel testo del romanzo e che è precedente alle ricerche citate); un contesto in cui viene posta forte enfasi sulle differenze di status e di potere, aspetto che comporta la forte influenza nelle decisioni di chi ricopre formalmente un ruolo di autorità nella scala gerarchica. Una cultura in cui le relazioni vengono gestite in modo affettivo, cioè basandosi sulle emozioni e sull’espressione di sensazioni e sentimenti piuttosto che su elementi oggettivi e comportamenti distaccati. Le conseguenze sono che l’individualismo è correlato con la ricerca di indipendenza e la ricerca del potere si focalizza sul perseguire obiettivi personali e pertanto c’è forte tendenza alla competitività tra le persone. E la competitività unita alla forte enfasi posta sulle differenze di status e di potere porta le organizzazioni a privilegiare specializzazione e standardizzazione attraverso l’introduzione di molte procedure, regole e norme da seguire per contenere, da un lato, l’alta diversità prodotta dall’individualismo e, dall’altro, la spinta a ricercare il potere. In altre parole, per limitare le competenze delle persone in un’ottica di facilitazione del loro controllo.
Oggi le organizzazioni, anche italiane, stanno evolvendo verso aziende che si ispirano ai principi delle imprese “teal”, organizzazioni sempre meno gerarchiche, ma piatte e auto-organizzate: in contesti in continuo divenire, quasi mai esistono verità assolute e immutabili; quindi, occorre rimettere costantemente in discussione le nostre convinzioni e le nostre certezze, cercando il modo di agire più rispondente al particolare momento storico che una società si trova a vivere. E allora, forse, in questo momento storico è fondamentale per le organizzazioni continuare a domandarsi se stanno manifestando la giusta disponibilità culturale a riconsiderare sé stesse e i loro assunti.
Da consulenti, noi consigliamo di pensare a quanto ognuno, in azienda, sta contribuendo a ricercare, a 360° e in tutti i modi possibili, i contributi potenziali che ogni singola persona può apportare all’evoluzione dell’organizzazione. E sollecitiamo i manager a domandarsi se e quanto si stanno impegnando a creare tutte le condizioni necessarie affinché ogni persona possa esprimere pienamente la propria soggettività ed apportare un significativo e distintivo contributo al successo dell’evoluzione dell’organizzazione. Ma anche se e quanto stanno contribuendo a rigettare, con la necessaria energia, la standardizzazione, che è finalizzata a contenere l’alta diversità prodotta dall’individualismo, contrastando, ovviamente, la smodata e non realistica ricerca del potere. Così come, si devono domandare se e quanto stanno contribuendo a sviluppare la capacità organizzativa di rispondere anche con modalità inusuali alle innumerevoli e diversificate esigenze delle persone, evitando di dar corso a modelli gestionali che privilegiano l’omologazione e il conformismo: questi modelli, infatti, si preoccupano di rinforzare sempre e solo la messa in atto di alcuni ristretti comportamenti senza mai prendere in considerazione tutti quelli possibili. Inoltre, incalziamo i manager a adottare un cambio di paradigma, che si basi sull’dea che la persona che sa di essere riconosciuta ogni giorno per la sua peculiarità, non potrebbe che essere maggiormente disposta ad agire nell’interesse generale, a concorrere secondo le proprie possibilità, all’evoluzione dell’organizzazione. Come essere umano se so che il mio contributo e il mio valore sono ampiamente e apertamente riconosciuti, sono ancor meglio disposto ad accettare il team e “l’ombra” che il gruppo mi fornisce, perché in fin dei conti so di non essere un anonimo ingranaggio…